Impiegato modello in un'azienda modello - italiano medio tragicamente modello -, Michele Gervasini fa coincidere la sua idea di felicità con gli angoli acuti del contratto a tempo indeterminato. E poco importa se ogni mattina deve affrontare il traffico isterico della via Pontina per raggiungere il suo ufficio alla Montefoschi, azienda leader nella produzione di latte e derivati. Lì lo aspettano gli altri dipendenti dell'Ufficio pianificazione e controllo, una pattuglia di buffi animali da scrivania che vive - non solo simbolicamente - all'ombra dell'enorme, minacciosa mucca aziendale in vetroresina che campeggia davanti agli stabilimenti.
Ma un giovedì mattina la più mite fra le colleghe si dà fuoco nello sgabuzzino delle scope, e all'improvviso bisogna rivedere i confini di quelle giornate che fino ad allora avevano funzionato con l'efficienza di un formicaio.
Con lo spirito dissacrante di una commedia tragicomica, Nessuno è indispensabile compie un piccolo miracolo: sovverte la tradizione del romanzo industriale seguendo il ritmo e la grammatica della contemporaneità, per descrivere in maniera umanissima e feroce i rituali, le mitologie, il misticismo laico che stanno alla base della vita aziendale. Peppe Fiore racconta la deriva impazzita del mondo in cui viviamo, la nevrosi da scrivania, i tic e le frustrazioni di ogni giorno, mettendo in scena con un'irresistibile dose di cinismo personaggi che non hanno a disposizione un'altra vita, né il desiderio di immaginarsela.
Se è vero che in ufficio contano solo gli obiettivi raggiunti, quando un tuo collega lascia vestiti e scarpe a filo della balaustra - allineati con la massima precisione - prima di gettarsi nel vuoto in mutande e canottiera, forse la strategia va ripensata. E non solo quella aziendale.
L’alienazione industriale raccontata cinquant’anni addietro da Paolo Volponi nel suo “Memoriale” diventa fiaba surreale, mitologia del disagio lavorativo, nel romanzo di Peppe Fiore “Nessuno è indispensabile”. Apologo di una contemporaneità mal suddivisa tra disoccupazione e lavoro annichilente, il libro trova nel paradosso il suo punto di forza, diventando qualcosa di simile a un collettivo grido di dolore e di protesta, un’allegoria che non vola verso cieli liberi come nel remoto film “Miracolo a Milano” di De Sica, ma si coniuga con la volontà di recuperare il lato umano del mondo lavorativo, quello in cui ciascun individuo spende la maggior parte del tempo e della vita.
Nessuno è indispensabile, neanche in un’azienda modello come la premiata industria casearia Montefoschi dell’hinterland romano: l’incolore protagonista, l’impiegato Michele Gervasini, lo capisce quando l’agognata promozione viene messa all’angolo da una inspiegabile serie di suicidi tra i dipendenti della ditta, che fanno vacillare le apparenti sicurezze dell’intera struttura produttiva. Per la serie tutto va bene finché va bene, Fiore tende a mostrare in pubblico il crollo dei sottili equilibri che reggono il mondo industriale e lavorativo, oggi. Paranoie, invidie, malumori, fobie, rituali, organigrammi psicologici, tutto quanto regge fino a quando il metronomo della produttività impeccabile non impazzisce. Allora crollano miti e valori, si aprono le falle nella perfezione di un universo perfetto perché fasullo, studiato a misura di slogan più che rispettando i ritmi dell’individuo, che quando procede in massa regge i colpi del sistema, ma se perde il passo cede, crolla, si autoannienta, trascinando con sé l’universo produttivo di cui fa parte. Allegorico, fanta-industriale, ma ben piantato nell’isteria sempre meno umana di queste stagioni di guerra sociale.
Sergio Pent
Peppe Fiore è nato a Napoli nel 1981 e vive a Roma. Ha pubblicato le raccolte di racconti L'attesa di un figlio nella vita di un giovane padre, oggi (Coniglio 2005), Cagnanza e padronanza (Gaffi 2008) e il romanzo La futura classe dirigente (minimum fax 2009).